Il cielo in una stanza: una esperienza di supervisione paritaria tra terapeute sistemiche

By adminpsy
5 Jun 2015
0
image_pdfimage_print

Pasqua Teora, Maria E.Castiglioni, Donatella Carnaccini, Pamela Meda

L'articolo descrive e concettualizza una esperienza di supervisione paritaria condotta dal 2002 da quattro colleghe terapeute senior di orientamento sistemico-relazionale, provenienti  da un gruppo di supervisione diretto fino al 2002, anno della sua morte, da Gianfranco Cecchin, cofondatore  del Centro Milanese di Terapia della Famiglia.

La metodologia adottata rispecchia l'insegnamento di Cecchin: irriverenza, libertà di pensiero, assenza di giudizio, rigore deontologico.

Rispetto ai gruppi di intervisione tra professionisti omologhi questa modalità di lavoro gruppale si distingue per sottolineare la dimensione della 'mancanza' (di competenza, di esperienza) e  quindi non  considera il gruppo, formato da pari, sufficiente in sé.

La dizione supervisione paritaria,  è infatti un ossimoro che dà conto di una realtà esperienziale dove le competenze e le relazioni mantengono una dimensione di verticalità, sia attraverso il ricorso ad eventi e contributi esterni al gruppo, sia attraverso il riconoscimento di autorevolezza alla parola dell'altra, liberamente espressa e scambiata.

Nella dinamica interna al gruppo la verticalità, cioè la super/visione, non è condensata in una persona fissa, né assunta a rotazione, ma è una 'figura' circolante, che si avverte quando manca, e la cui presenza si coltiva attraverso l'attenzione all'ascolto, ai turni di parola, alla tenuta sul focus, all'impegno nell'analisi critica e alla restituzione  di senso da parte di tutte all'esperienza di ognuna.

 

Siamo quattro psicologhe psicoterapeute senior, provenienti da esperienze formative diverse e aventi  in comune l'approccio  terapeutico sistemico e l'aver fatto parte per anni dell'ultimo gruppo di supervisione di Gianfranco Cecchin  al Centro di Terapia Familiare di via Leopardi di Milano, conclusosi con la sua morte il 3 febbraio 2002.

Allora ci sarebbe piaciuto che la Scuola di Milano ci accompagnasse nell'elaborazione del lutto, ma così non fu.  La  richiesta di  sciogliere il gruppo  nell'immediatezza dell'evento tragico, benché effettuata con  una certa  'ruvidezza', servì da stimolo  a dare vita ad una realtà autonoma, sorgiva, che ci ha evitato il rischio di rimanere per sempre le “orfane di Cecchin”,

Il gruppo  continua  a riunirsi da  allora: restano vivi e fondamentali per noi la parola e il 'pensiero aperto'  di Gianfranco Cecchin (1992, 1997, 2004) condensato nella sua avvertenza: “Non lasciatevi mai sedurre del tutto da un modello al punto da esserne irretiti” (1992), la sua libertà  e la sua vigilanza verso tutti i sistemi oppressivi, dentro e fuori di noi: “Il terapeuta irriverente cerca di non sentire il bisogno di seguire una teoria particolare o le regole che gli sono imposte dai clienti, dalle istituzioni, dagli ambiti in cui opera” (1992).

Nei primi anni abbiamo messo energia nel definire i perché e i percome, sperimentando una modalità che abbiamo definito con il termine di  'leadership passante' e  che consisteva nel passaggio a turno del ruolo di moderatrice. Successivamente abbiamo adottato una modalità più spontanea e paritaria, in Italia definita comunemente di 'intervisione’, termine utilizzato già negli anni '90 tra i facilitatori di gruppi di mutuo aiuto e poi diffusosi anche nel mondo della psicoterapia.

Tra di noi  si è via via creata una sorta di 'mente collettiva' nell'accezione usata da Mc Dougall: “La  mente di gruppo è un sistema organizzato di forze mentali…che non è compreso all'interno della mente di nessun individuo…ma che è piuttosto costituito dal sistema di relazioni che si ottengono tra le menti individuali che lo compongono”  e un linguaggio comune costruito sulla base di “pensieri che circolano” (G. Di Leone,1994) senza che ci si senta invase, annullate e/o indebitamente influenzate.

Da anni, in una scena laica, ci consideriamo ricercatrici non ossequienti ad un modello teorico rigido, nutrendo immaginazione e competenze professionali, consapevoli, come avvertiva Cecchin che “la realtà è una costruzione relazionale che si attua in un dato dominio linguistico”.(1992).

Il luogo in cui ci riuniamo appartiene a una collega esterna al gruppo, a cui paghiamo un contributo spese (in cambio di un buon caffè lungo) e ci riuniamo una volta al mese. Veniamo da città diverse: Bergamo, Bologna, Bellinzona (CH). Una sola è di Milano e si 'sdebita' verso le foresi con frutta e pasticcini: un'altra eredità di Cecchin, che noi definiamo di 'doppio nutrimento', teorico e affettivo-relazionale, che passa attraverso i canali concreti (oggetti, cibo) quanto simbolici (pensiero e linguaggio).  Il limite di tali diverse  dislocazioni è tutto negli imprevisti (intoppi di traffico e  ritardi dei treni). il vantaggio è quello di poter confrontare e arricchirsi di esperienze provenienti da realtà istituzionali e culturali differenti.

Non c'è alcuna circolazione di denaro tra noi: lo scambio di tempo e di pensiero è nel segno della gratuità.

La metodologia che abbiamo adottato e che via via è diventata meno strutturata, ma non per questo meno rigorosa,  è stata  ispirata al 'modello Cecchin', non definito in alcuno suo scritto, bensì da noi  appreso negli anni di lavoro di supervisione con lui  e che potrebbe così sintetizzarsi: presentazione del caso e motivo della richiesta di supervisione, domande, commenti e riflessioni delle colleghe, restituzione finale della richiedente. La domanda può anche non riguardare un caso, ma una questione relativa al setting, ai rapporti interistituzionali, oppure un tema oggetto di aggiornamento etc.

A nostro parere questa è stata la vera innovazione introdotta da Cecchin: la fonte primaria di conoscenza è il gruppo con la sua 'volontà di sapere' (Foucault, 1978),  la sua inesauribile creatività circolare, la fiducia condivisa nella possibilità di mettere al mondo un pensiero, in definitiva la sua capacità  relazionale perché, come amava ripetere Bateson, “prima di tutto è la relazione”.

Il leader, in questa prospettiva, resta  sullo sfondo, semplice catalizzatore di un processo maieutico che si svolge innanzitutto nell'allievo e tra gli allievi/e. Come ricorda Recalcati (Recalcati, 2014) “il movimento del transfert non introduce il sapere nel soggetto, ma muove il desiderio del soggetto verso il sapere”.

Nell'interpretare la figura del supervisore Cecchin si “sfumava”, finchè ognuno sentiva di dover “diventare un po' Cecchin”, un processo di contaminazione e introiezione ma anche di differenziazione e di costituzione autonoma di pensiero. Se così non fosse stato non potremmo essere qui, dopo 12 anni, a raccontarlo.

Pensiamo che in questo consista la differenza sostanziale tra un'esperienza comune di supervisione e quella da noi condotta. Ad esempio, rispetto all'esperienza di supervisione descritta da Roberto Mazza  ( Mazza, 2014), mentre ci troviamo perfettamente concordanti con la metodologia illustrata, molto simile a quella da noi utilizzata, ci distinguiamo però rispetto alla presenza del supervisore, che incarna la dimensione della verticalità,  peraltro indispensabile in un gruppo di super-visione.

Per 'verticalità' intendiamo alcune funzioni, solitamente delegate alla figura del supervisore  quali: porre domande, suggerire nuove letture, esplicitare ipotesi relazionali complesse, osservare i  giochi  in atto nel gruppo, operare connessioni a più livelli etc. (Mazza 2014). Il supervisore è qui supposto possedere un 'di più di sapere' rispetto ai membri del gruppo e per tale motivo gli viene affidata anche la responsabilità della gestione della dinamica di gruppo, per  garantirne uno svolgimento sensato ed ordinato.

Nella peer supervision  questa figura è solitamente ricoperta dal Moderator (Heller, 1989, Kassan, 2010, Borders, 2012).

Quali i dispositivi che abbiamo allora adottato per  porre in essere la dimensione della verticalità senza identificarla– nemmeno a turno- in qualcuna di noi (o in un/a esterno/a) ?

Noi l'abbiamo cercata nella partecipazione, individuale e collettiva,  a seminari, convegni, a cicli di supervisione gestiti da altri colleghi sistemici; una volta abbiamo anche invitato due colleghe che facessero da 'esterne': di tutte queste esperienze abbiamo messo in comune materiali e riflessioni ex post, per un arricchimento reciproco dei nostri saperi.

Oggi possiamo quindi affermare  che la 'verticalità'  non si identifica in una persona fissa, ma è diventata una 'figura' circolante' tra di noi e in ognuna di noi,  riconosciuta quando emerge, auspicata quando stenta a comparire, in ogni caso nutrita  dal  desiderio di sapere, di apprendere dalla nostra esperienza professionale e di vita, nonché dalla volontà di dare continuità al lavoro di gruppo.

Lo svolgimento 'ordinato e sensato' delle riunioni  è vissuto da ognuna come un 'proprio' compito   e come tale assolto, in una sorta di bilanciamento, spontaneo ed autocorrettivo,  tra lo scopo del gruppo e quegli 'assunti di base'  bioniani che a volte ci trattengono  in dimensioni 'altre' (affettive, di evasione, di intrattenimento, di godimento…).

Ma che cosa, a distanza di tanti anni, sorregge e mantiene in vita questa nostra realtà?

L'essere diventate una piccola comunità di pensiero, avalutativa e acompetitiva, in grado di scambiare con libertà competenze professionali di livello soddisfacente e arricchente per tutte; l'essere garanzia, l'una per l'altra, del reciproco grado di funzionamento, di resilienza  e di igiene mentale, l'essere uno spazio di approfondimento e comprensione dei vissuti  controtransferali, l'essere un luogo di presenza, dove porre domande e trovare risposte, all'insegna della curiosità-neutralità-irriverenza cecchiniane.

E' un lavoro simbolico,  di restituzione di senso al nostro agire, necessario quanto  la stima  che abbiamo l'una per l'altra, ma che non si confonde ne si fonda  sull'amicizia, facilitante ma – in questo orizzonte- non indispensabile.

In conclusione potremmo definire questa nostra esperienza professionale nei termini di un gruppo di 'supervisione paritaria', dove è presente la  tensione a fare in modo che siano sempre presenti alcune dimensioni (anche se non tutte contemporaneamente e con lo stesso grado di 'riuscita'):

l'esercizio della critica/accettazione delle differenze, senza compiacimento né soggezione; il riconoscimento del valore e della dignità nostra e dei nostri pazienti, in risonanza con gli insegnamenti di Cecchin; la costante ricerca della guarigione e della salute; la fiducia nella irriducibile forza vitale dei pazienti alimentata da uno sguardo  ironico e, se necessario, dissacrante; l'ascolto attento e partecipe,  collocato nel qui e ora, con un'attitudine a cogliere qualcosa di prezioso e geniale nel/la paziente, come nella  collega.

Da ultimo, forse perché più importante, la libertà di vivere il conflitto tra di noi senza  scandalo né banalizzazioni, ma come  possibilità di ricomposizione, perfino di armonia. Questa possibilità ci è data dal  non aver bisogno delle 'grandi parole che spiegano il mondo' (di nuovo l'irriverenza), anzi nel ritenere, proprio per il lavoro che facciamo, che ogni definizione conclusiva ed esaustiva rappresenta, come avvertiva Adorno: “una cicatrice di un problema irrisolto”. (Adorno,2007)

Se cercassimo solo certezze e punti fermi  svuoteremmo il desiderio stesso di pensare insieme, desiderio che nasce, come ricorda Chiara Zamboni, “dalla consapevolezza implicita della propria mancanza e non da contenuti solidi e già acquisiti che le definizioni ripetono” (Zamboni, 2009).

Questa è  la materia che dà sostanza alla metodologia della 'supervisione paritaria', questo è, in definitiva, il 'cielo' della nostra stanza.

Bibliografia

Adorno T.W. (1973) Philosophische Terminologie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt Am Main. (Trad. italiana: Terminologia Filosofica,  2007, Einaudi, Torino).

Bion W. (1961) Experiences in Group, Tavistock (Trad. Italiana  Esperienze nei gruppi, 1970, Armando Editore, Torino.

Cecchin, G. (2004) Ci relazioniamo dunque siamo, Connessioni, 15, 57-61.

Cecchin, G., Lane G., & Ray W.A. (1992) Irriverenza. Una strategia di sopravvivenza per i

Terapeuti. Franco Angeli, Milano.

Cecchin, G., Lane G. & Ray, W. A. (1997) Verità e pregiudizi: un approccio sistemico alla psicoterapia. Raffaello Cortina, Milano.

Di Leone G. (1994) Illusione e affetti. In I Fattori terapeutici, convegno, Roma, 22-24 marzo.

Heller D. A. (1989) Peer supervision, Phi Delta Kappa Intl, Bloomington, Indiana.

Foucault M. (1976) La volonté de savoir , Gallimard, Paris (Trad. Italiana La volontà di sapere, 1978, Feltrinelli, Milano).

Kassan, L. D. (2010) Peer supervision groups: How they work and why you need one, Jason Aronson, New York.

Mc Dougall W. (1939) The group mind, Cambridge University Press, Cambridge.

Mazza R. (2014) Supervisione e lavoro di gruppo nei Servizi pubblici, Terapia Familiare, n.104.

Recalcati M. (2014) L'ora di lezione, Einaudi, Torino.

Zamboni C. (2009) Pensare in presenza,  Liguori, Napoli.

Comments: 0

Comments are closed.


  • Redazione

    Direttore

    Matteo Selvini, Scuola di Psicoterapia della famiglia Mara Selvini Palazzoli, Milano

    Comitato di redazione

    Grazia Attili, Sapienza Università, Roma

    Alfredo Canevaro, American Family Therapy Academy, Buenos Aires

    Juan Luis Linares, Università Autònoma, Barcellona

    Marco Vannotti, Cerfasy (Centre de Recherches Familiales et Systémiques), Neuchâtel