Intervista all’Editor, Matteo Selvini, di Germana Cavallini

By adminpsy
6 May 2014
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Germana Cavallini: Benvenuti a tutti. Ci troviamo alla scuola di psicoterapia Mara Selvini Palazzoli di Milano per affrontare il tema della ricerca in ambito psicoterapeutico. Parleremo col dottor Matteo Selvini. La creazione di una nuova manovra terapeutica da che cosa può essere favorita? E come avviene?

Matteo Selvini: Credo che la base sia un po’ il dolore e il disagio del terapeuta stesso: il professionista che si coinvolge nei casi che sta cercando di seguire, nelle persone che sta cercando di aiutare, spesso e volentieri fa i conti con il suo fallimento e la sua impotenza. E quindi è chiaro che cerca di inventare qualcosa che gli eviti quel sentimento di fallimento, quel sentimento di impotenza. E quindi nella storia della psicoterapia credo che tutti i progressi siano avvenuti su questa base, quando il professionista si trova a rivivere qualcosa che ha già vissuto e che ha condotto a  conseguenze che poi nel tempo si sono rivelate negative. Quindi, se io ripenso alla storia più nostra mi viene in mente la storia, ad esempio, di mia madre Mara Selvini Palazzoli che fece la psicanalista, la psicoterapeuta. Inizialmente mise in discussione il modello di psicanalisi, la psicanalisi classica, ortodossa, pulsionale con le anoressiche non serve a niente, non funziona e si cercò d’ispirare ad altri modelli: Sullivan piuttosto che Karen Horney piuttosto che la fenomenologia esistenzialista. Però a un certo punto si accorse che ci voleva qualcosa di più radicale e di qui ci fu poi il salto alla famiglia. Questo è l’esempio storico che mi è venuto andando indietro di cinquant’anni nel tempo, però è una cosa che viviamo ancora tutti i giorni. In questi ultimi anni, ci si rende conto che magari certe terapie rischiano di diventare troppo cognitive, troppo intelletualizzanti, troppo basate sulla parola. Ci si rende conto che a un certo punto queste tecniche così verbali non producono davvero un cambiamento.  Ed ecco che rinasce questo sentimento di inutilità, di impotenza, di fallimento da cui nascono delle invenzioni. Una cosa che ha molta attualità nel campo della terapia famigliare è utilizzare delle tecniche che invece facciano succedere delle cose emotivamente forti nella seduta, staccandosi un po’ dal registro troppo intellettuale, troppo cognitivo. Adesso c’è un periodo di grande creatività nell’inventarsi tecniche in qualche modo esperienziali. Quella “classica”, famosa è la tecnica delle sculture: far scolpire alla famiglia se stessa, come è stata nel passato, come si immagina che possa diventare nel futuro; è una tecnica che molto spesso ha dato dei risultati importanti proprio per cambiare completamente la dimensione della seduta e passare dal piano troppo intellettuale a un piano dove invece si scatenano delle emozioni e si vedono delle cose che non si potrebbero vedere in un altro modo. A volte le immagini di come le persone si collocano fisicamente apre dei mondi e quindi credo che la risposta della domanda sia questa. Insomma, alla fine il terapeuta lavora specialmente su se stesso e soprattutto sulle sue emozioni sia positive che negative. E quando prevale il dolore di non riuscire ad aiutare i propri pazienti, bisogna inventarsi qualcosa, no? Per il singolo caso, ma che poi magari si riesce a generalizzare anche come una tecnica che poi si usa con altri.

GC: Vorrei chiederti come si categorizzano i casi clinici in funzione della ricerca.

MS: Il problema del nostro campo è che siamo immersi in una complessità che è abbastanza intollerabile, perché la nostra testa non ce la fa a starci dietro. Le categorie ci servono perché dobbiamo semplificare questa complessità in modo tale da renderla maneggiabile. Quindi tutte le scuole di psicoterapia devono implicitamente o esplicitamente inventarsi un modo per categorizzare questa realtà troppo complessa con cui abbiamo a che fare. Le categorie le dobbiamo usare anche se ci diciamo, come tanti colleghi fanno, che non vogliamo farci imbrigliare dalle diagnosi, che dobbiamo salvare l’unicità del caso. Tutte cose vere.  Però in realtà, anche chi ragiona in questo modo usa delle categorie diagnostiche, solo che lo fa in maniera implicita e questa cosa secondo me non va bene. Meglio che noi abbiamo esplicitamente chiare le categorie che usiamo, che non fare finta di combattere la diagnosi e di non volere la diagnosi perché stigmatizzare, per di poi di fatto usarla ma in maniera più confusa senza rendersene conto. Secondo me questa è una delle patologie gravi della psicoterapia. Quindi noi abbiamo cercato di fare lo sforzo contrario di dire chiaramente quali sono le diagnosi che noi usiamo. Abbiamo definito sette tipi di diagnosi, diciamo così. La più operativa è la numero uno, è quella proprio fare la diagnosi del tipo di domanda , abbiamo visto che tutte le domande che hanno a che fare con la psicoterapia si possono raggruppare in quattro categorie. Abbiamo definito “domanda individuale” quando il paziente chiede un aiuto per se stesso, “domanda famigliare” quando è un famigliare a chiedere aiuto per un altro famigliare. In questi due casi c’è un riferimento comunque a un problema personale, individuale. Il terzo caso, che è un po’ diverso, è quello che abbiamo chiamato “domanda relazionale”, cioè quando viene fatta una domanda di aiuto ma per, non so, una relazione in crisi, una coppia in crisi, una relazione padre/figlia in crisi: questo è il terzo tipo di domanda. E la quarta è la cosiddetta “domanda coatta”, quando cioè non c’è nessuno che domanda ma c’è un’istituzione, un tribunale, una scuola, un ente che obbliga ad andare dallo psicologo, dallo psicoterapeuta. Questa classificazione si fa nei primi cinque/dieci secondi del primo contatto: porta a  prassi molto diverse a seconda di chi vedo la prima volta, come raccogliamo le informazioni, chi faccio venire, non mi soffermo. Questo è un livello diagnostico iniziale, elementare.

Poi naturalmente non disprezziamo anche la diagnosi psicopatologica classica perché, per esempio, noi abbiamo fatto anche recentemente delle ricerche poiché abbiamo la fortuna, cosa che non tutti i professionisti hanno, di vedere tanti casi della stessa categoria. Noi, ad esempio, per tradizione culturale, vediamo tantissime anoressiche restrittive. Allora su questo ci possiamo permetter di fare delle osservazioni, di tenere con fatica, con sforzo, una memoria, una classificazione delle ultime trenta, quaranta. Recentemente abbiamo preso le ultime trentaquattro ragazze anoressiche restrittive che abbiamo avuto in terapia: si fa lo studio di cos’hanno in comune e cos’hanno di diverso e si cercano le cosiddette ridondanze, cioè quali fenomeni sono ripetitivi. Se io studio la vita, la malattia, la famiglia di queste trentaquattro ragazze che hanno la stessa diagnosi in comune, cosa trovo? E questo è un altro modo per usare le categorie per fare ricerca.

Poi abbiamo il terzo livello della categoria diagnostica che è quello dell’attaccamento, sempre in questo criterio della semplicità e quindi dell’utilizzabilità. Ecco, per quanto riguarda l’attaccamento, ad esempio, distinguere anche molto semplicemente tra il versante ambivalente e il versante evitante è molto operativo perché, ad esempio, noi sappiamo che il paziente evitante tende a non chiedere aiuto, quindi più difficilmente verrà trascinato nella consultazione psicologica, mentre il paziente ambivalente tende a chiedere aiuto ma a essere poi insoddisfatto dell’aiuto che riceve. E questo è importante come criterio di conduzione anche di un primo colloquio perché ci orienta al fatto che, col paziente evitante, dovremo avere una certa linea d’azione che è ispirata al criterio dell’accoglienza, soprattutto dell’accettazione, mentre invece col paziente con l’attaccamento ambivalente andremo nella direzione di essere più direttivi, più guida, per cercare di dare una risposta più immediata alla sua richiesta di aiuto. Quindi, linee guida molto semplici.

Il quarto livello, poi, che utilizziamo e che è stato piuttosto innovativo, soprattutto per il campo sistemico, non per il campo della psicoterapia in generale, è cercare di integrare anche la diagnosi di personalità. Se io faccio una certa diagnosi di personalità, ad esempio, osservo magari anche all’inizio di un colloquio, dei tratti narcisisti del mio paziente, io in generale so quale è stata il tipo di storia famigliare di chi presenta dei tratti narcisisti. E quindi questo mi aiuta a pensare più velocemente, a fare delle ipotesi più velocemente,  anche su quello che è il quinto livello della diagnosi, che è quello che ha sempre caratterizzato il modo sistemico: la diagnosi sistemica.

Quindi questa è un’altra categorizzazione ancora. La diagnosi sistemica che cos’è? La diagnosi sistemica vuol dire: che aria si respira in questa famiglia, cioè questo ragazzino di sedici anni che mi portano, in che tipo di mondo sarà vissuto, che tipo di posizione avrà avuto in questa famiglia? E questo è un altro livello, categorizzare quindi quali sono le specificità di una posizione della famiglia: che tipo di conseguenze normalmente ha essere ad esempio il terzogenito di una fratria di tre, avere una posizione rispetto a certi tipi di problematiche fra i genitori, essere il primogenito di una madre il cui matrimonio è in crisi.

Fare dialogare diagnosi sistemica con la diagnosi individuale, con l’attaccamento, con la psicopatologia, con tutto il resto è quello che ci sembra più interessante dal punto di vista sia della ricerca che della clinica.

Gli ultimi due livelli sono quello trigenerazionale,  che è un altro livello ancora. Trigenerazionale, che cosa vuol dire? Che ciascuno di noi prima di diventare genitore è stato un bambino e che come bambino ha avuto delle, diciamo, delle esperienze, delle ferite, degli apprendimenti che inevitabilmente riporterà nel suo essere genitore. Quindi questo è un altro modo per guardare alla realtà di un paziente, di una famiglia. Come avviene questo passaggio da una generazione all’altra, ad esempio di un certo modo di essere genitore. Se io sono stato, ad esempio, un figlio che ha imparato a cavarsela parecchio da solo, è chiaro che lo stesso messaggio lo darò ai miei figli e quindi questo può comportare anche delle conseguenze negative perché potrei ad esempio sottovalutare delle difficoltà dei miei figli e pensare che così come io me la sono cavata da solo anche loro se la devono cavare, invece magari loro in quel momento hanno bisogno di un sostegno diverso da quello che ho avuto io, per esempio. Quindi il trigenerazionale è un sesto livello di diagnosi, di categorizzazione, che può essere molto importante.

E poi forse il più importante di tutti è l’ultimo che abbiamo già sfiorato in questa intervista, che è quello dell’emozione del terapeuta, cioè fondamentalmente il terapeuta classifica le persone che ha davanti sulla base di come si sente lui. E quindi questo è il punto fondamentale e in questo senso lavorare in equipe è veramente prezioso. Questo è forse l’elemento più di forza del nostro approccio perché effettivamente il terapeuta non sa mai fino a che punto le emozioni che prova con quel paziente o quella certa famiglia siano legate a lui stesso, perché quelle persone che incontro mi ricordano persone della mia storia e quindi provo dell’antipatia o della simpatia legata a delle mie risonanze. Non so, incontro quel certo signore che parla un po’ in milanese e in qualche modo, consapevolmente o inconsapevolmente, mi ricorda un mio zio che mi era simpatico, io provo una simpatia immediata, però magari mi accorgo che il mio collega dell’equipe prova dei sentimenti totalmente diversi, allora questo è molto interessante … fa diagnosi, … su questo livello. E invece in altri casi una persona che appare odiosa, appare odiosa a tutta l’equipe e allora, insomma, c’è una forte probabilità che sia proprio il suo modo di funzionare. Quando si fanno delle categorie diagnostiche il rischio è che poi vengano usate in maniera ossessiva.  E quindi bisogna mantenere l’equilibrio, usare le categorie diagnostiche finché ci rendono vitali, creativi.

GC: Parliamo ora di follow-up.  Quali tecniche suggerisci?

MS: Un principio fondamentale che difficilmente è realizzabile molto spesso è che sarebbe molto importante avere più riscontri sulla stessa situazione. Il punto fondamentale è comunque che non si fanno abbastanza follow-up. Cioè, io ritengo, per quello che è la mia esperienza, che la stragrande maggioranza degli psicoterapeuti non sappia cosa è stato dei suoi pazienti cinque anni dopo, dieci anni dopo, vent’anni dopo. Se invece tutti gli psicoterapeuti, sistematicamente, chiedessero notizie, si informassero sull’esito a lungo termine dei loro pazienti, credo che la psicoterapia ne trarrebbe grande vantaggio perché ci potrebbe essere un modo più serio, più sistematico, appunto, per vivere costruttivamente quel dolore del fallimento. Trovare il modo di chiamare sistematicamente i nostri pazienti un anno, due anni dopo la fine della terapia e se possibile magari anche ad intervalli di tempo più lunghi, avvisare magari anche i nostri pazienti che ci fa piacere avere loro notizie anche a lunga distanza, io credo che sia una cosa che veramente ci fa imparare molte cose. E poi, questa però è la parte più difficile, indubbiamente, però io ci provo quando ci riesco, provo a ottenere notizie anche da altre fonti: non sentire solo il paziente stesso, ma sentire per esempio il curante o il famigliare… questo veramente ci dà un quadro più completo, perché a volte il paziente potrebbe darci una risposta un po’ compiacente, e quindi avere altri riscontri ci dà una certezza di avere capito bene cosa è stato di questa persona e quelli che sono stati gli effetti a lungo termine del nostro lavoro. Forse bisognerebbe fare qualcosa di più a livello di categoria per sostenere tutto ciò, il lavoro del follow-up.

GC: Nel corso della ricerca scientifica come si giunge a superare una categorizzazione a favore di un’altra?

MS: Questa domanda si collega alla prima, perché ci sono a volte delle categorizzazioni che ci risultano controproducenti  dal punto di vista della possibilità di aiutare. Il caso più attuale in questo momento, per esempio per quanto riguarda il mio lavoro,  è, nel campo delle diagnosi e dei disturbi di personalità, l’utilizzo della diagnosi di borderline o di masochismo. La diagnosi di borderline ha cominciato a essere utilizzata in maniera massiccia, per cui se alla fine tu ti rendi conto che quasi il cinquanta per cento dei pazienti, se non di più, vengono diagnosticati come borderline, tu dici: che cavolo serve la diagnosi … sono tutti borderline, infatti non a caso uno degli ultimi libri di Cancrini è intitolato “L’oceano borderline”. Veramente un oceano, perché sono tutti pazienti borderline. Quindi questo è uno dei motivi che porta a mettere in crisi certe categorizzazioni, il fatto che sono utili se proprio mi individuano un fenomeno specifico: se è qualcosa che si può applicare a tutto alla fine non serve più a niente … E l’altro criterio poi invece, nel caso specifico del borderline come del masochista,  è quello che è diventato stigmatizzante, nel senso che anche nel linguaggio corrente è diventato l’equivalente di un insulto o giù di lì, come dire che uno è pazzo, inattendibile, aggressivo, insomma una brutta persona. Quindi non sembra una buona premessa: se anche un paziente deve riconoscere di avere dei limiti, non è sulla base di un’etichetta squalificante che sarà molto aiutato. E soprattutto poi, anche i nomi hanno la loro importanza, io ad esempio in questi anni sto lavorando perché al posto dell’etichetta borderline si utilizzi la diagnosi di personalità post traumatica. Mi sembra un cosa molto costruttiva, perché in qualche modo dà subito un messaggio … mentre la diagnosi di borderline non dice niente se non mezzo matto, che non mi sembra particolarmente … sì è anche vero che è mezzo matto ma non è di grandissimo aiuto definire uno mezzo matto. Invece dire che quelle possono essere le conseguenze di traumi prolungati nel tempo mi sembra già un piccolo messaggio che ci porta a una posizione un pochino più empatica, sia il paziente stesso verso se stesso che i suoi famigliari verso di lui. Molto spesso questi traumi che questi ragazzi e ragazze hanno vissuto sono stati fortemente banalizzati, misconosciuti e quindi il primo lavoro da fare è proprio di riconoscere che c’è stato un trauma nelle loro vite e quando c’è questo riconoscimento è già una buona partenza della terapia. Quindi anche il nome, in questo senso la categorizzazione, può aiutare, questo può essere uno dei motivi, rendersi conto che una diversa categorizzazione aiuta a pensare diverso, aiuta a avere delle reazioni emotive diverse, molto più produttive.

GC: Sempre parlando della ricerca in psicoterapia, che cosa possono offrire le metodologie qualitative e quelle quantitative?

MS: Mah, il problema della ricerca in psicoterapia è, secondo quello che vedo attualmente, è che esistono realmente in campo solo le metodologie qualitative, nel senso che ci sono un sacco di professionisti seri che studiano i loro casi, che pubblicano delle riflessioni sui loro casi e questo tipo di ricerca dà dei risultati: io leggo volentieri libri anche di autori di altri modelli che fanno delle riflessioni su determinate casistiche, ad esempio in questi anni mi sono occupato dei disturbi di personalità, ho letto tante riflessioni interessanti sui disturbi di personalità. Invece la ricerca quantitativa non esiste. Cioè il problema grave nel campo della psicoterapia è che esistono solo delle ricerche che sono collegate al campo farmacologico, che studiano la combinazione farmaci/psicoterapia ma in una maniera altamente deformata dagli interessi delle case farmaceutiche che vogliono solo dimostrare che il loro farmaco funziona e gli va bene anche dire che funziona abbinato a terapia cognitiva perché ovviamente l’importante è vendere il prodotto. Invece purtroppo non c’è nessuno che faccia delle ricerche che seriamente comparino un certo modello,  mettiamo psicanalitico, con un modello cognitivo, con un modello sistemico. Una paziente che si ammala, che so io, di anoressia restrittiva può finire in una terapia psicanalitica, in una terapia cognitiva, in una terapia sistemica famigliare, e nessuno ha la più pallida idea di cosa sia il metodo che può dare effettivamente dei risultati, ma non c’è neanche nessunissima ricerca. Io questo trovo che sia una cosa assurda. Che non esistono delle istituzioni di ricerca che seriamente facciano questi confronti, penso che sia molto grave. Ma a quanto pare questa è una cosa che non interessa a nessuno. Io l’ultima volta che ho letto una ricerca di questo tipo, una ricerca fatta a Londra vent’anni fa sulla depressione che paragonava la terapia di coppia con la terapia farmacologica, con la terapia individuale ed era una ricerca che aveva dato dei risultati molto, molto interessanti e ha anche dimostrato, noi siamo contenti anche perché dimostrava nettamente la superiore efficacia della terapia di coppia nella depressione maggiore. Però è l’unica di cui ho sentito parlare negli ultimi vent’anni, non so neanche per quale miracolo fosse stata fatta, “London Depression Trial” vent’anni fa da Eia Asen e l’altra collega. E questo secondo me è un problema molto grosso, io spero che prima o poi ci siano delle istituzioni … perché poi il singolo centro… io non posso fare una ricerca di questo tipo, come faccio?

GC: A volte però s’incontrano studi sperimentali sull’efficacia delle psicoterapie.

MS: Sì, però purtroppo è un po’ raro. Io sono sempre a caccia di queste ricerche per potere utilizzarle, per avere conforto rispetto a quello che facciamo. E qualche volta è vero che capita di trovare nella letteratura internazionale delle cose interessanti. La mia lamentazione è che succede veramente molto, molto raramente. L’ultima che mi viene in mente è una ricerca, ma non neanche recentissima, fatta in un ospedale inglese sull’anoressia restrittiva; questa ricerca aveva prodotto un dato che io considero molto interessante, che dimostrava che più le ragazzine anoressiche restrittive erano piccole, cioè dieci, undici, dodici anni, più la terapia famigliare aveva un’efficacia sul sintomo stesso in tempi abbastanza rapidi e questo l’ho trovato una cosa molto interessante anche perché corrisponde totalmente alla nostra esperienza. Perché abbiamo dei cambiamenti anche nel giro di poco tempo, e quindi in questo senso c’è un buon dialogo tra ricercatore e clinico. Trovo che purtroppo è troppo raro. La maggior parte delle ricerche che vengono fatte anche sulla psicoterapia non  interessano purtroppo al clinico, perché sono fatte in un modo tale che non ci danno effettivamente delle idee, degli spunti importanti, sembrano essere fatti per dei contesti particolari, non sono fruibili da noi. E questo, trovo che sia il grosso limite della ricerca in psicoterapia: fare qualcosa che veramente dia degli strumenti anche al professionista che lavora sul campo. Come al solito, campo di ricerca e campo professionale tendono a essere troppo staccati l’uno dall’altro.

GC: Questo anticipa un pochino la nostra ultima domanda:- in che direzione pensi o auspichi che possa andare la ricerca scientifica in psicoterapia?

MS: Adesso lo sforzo della psicoterapia è giustamente quello di fare dei protocolli. Data, che so io, un’adolescente che ha un disturbo di personalità narcisistico, qual è la procedura ottimale? Quale combinazione di lavoro individuale/famigliare? Quale durata della terapia? Quali sono i fattori terapeutici? Cosa cercherò di cambiare a livello individuale? Io credo che in questo senso ci siano delle potenzialità per la ricerca in psicoterapia perché sempre di più ci sono dei modelli dove queste cose vengono specificate. Noi adesso stiamo proprio lavorando per poter mettere a disposizione dei nostri allievi e dei colleghi in generale dei protocolli sempre più specifici. Ad esempio, adesso sto per pubblicare un articolo dove dico: per gli adolescenti che vengono portati in terapia perché sono i loro famigliari a chiedere la terapia la procedura ottimale è che il primo colloquio almeno sia un colloquio congiunto coi loro genitori. Poi, a seconda di questa prima valutazione, seguiranno varie alternative: bisogna indicare in un qualche modo una procedura. E io sostengo che questa procedura, quella del primo incontro congiunto, è molto più efficace di quella che normalmente viene usata, invece, di fare un primo colloquio individuale con questo adolescente. Magari molti colleghi fanno prima un colloquio con solo i genitori, e poi vedono l’adolescente da solo. Sarebbe interessante che venisse fatto sistematicamente un confronto fra procedure diverse. Ad esempio su come fare un primo colloquio stabilendo naturalmente delle categorie diagnostiche:  adolescenti con disturbi di personalità, tossicodipendenza, anoressia,  altri tipi di dipendenza e studiare dei protocolli diversi. E quello che vedo di positivo è che varie scuole di psicoterapia sempre di più mettono a punto dei protocolli più precisi, cioè è finito il tempo che sembrava che l’unico protocollo fosse mettere il paziente sul lettino e poi quel che succedeva: questa cosa credo sia diventata abbastanza inaccettabile ormai. Credo che, quindi, come dicevo prima, il futuro della ricerca dovrebbe essere proprio mettere a confronto le diverse procedure per studiare i pro e i contro. Credo che si possa dire che la psicoterapia sta procedendo, però molto divisa tra le diverse scuole. Veri confronti di ricerca tra le diverse scuole, direi che per il momento non esistono.

Pubblicato online: 14 Maggio 2014.

Copyright: © 2014 Matteo Selvini e Germana Cavallini. Questo è un articolo a libero accesso distribuito in base alla Creative Commons Attribution License. L'uso, la distribuzione e la riproduzione di questo articolo sono consentiti a condizione che sia esplicitamente attribuito agli autori e che la pubblicazione originale in E-Journal of Psychotherapy Research sia citata in accordo con la pratica accademica in uso. Non è consentito alcun uso, distribuzione o riproduzione se non alle sopra citate condizioni.

Comments: 1

  1. Mariapia Lenzi says:

    Ascoltando l'intervento del Prof. Matteo Selvini mi affioravano alla mente tante situazioni in cui nel rapporto paziente/terapeuta si avverte la sensazione di "impotenza", che spesso è reciproca. Si potrebbe definirla la "sindrome dell'escursionista?" Basta pensare  alla difficoltà di raccontarsi, di comprendere il significato di alcune domande, di superare vecchie credenze che ci basta per descrivere appena la Babele in cui ci muoviamo.  Se ci pensiamo bene, l'utilizzo di un termine così stigmatizzante quale "impotente", in andrologia, è stato già da un po' sostituito, con quello più narrativo di "disfunzione erettile situazionale". Cambiando il punto di osservazione di un fenomeno si prospettano altre strategie di intervento, aspettative di cura e guarigione. Per quanto dovremmo intenderci anche sul significato di "cura" e "guarigione". L'intervento psicoterapeutico che inizialmente si è costruito per la classificazione delle patologie psichiatriche, risente ancora oggi degli echi del passato, prospettando sempre i soliti confini tra normalità e malattia, tra libertà e ghetto in cui siamo tutti coinvolti. La costruzione di linee guida per la categorizzazione di fenomeni non è che aiuta a comprenderli, ma addirittura potrebbe limitarne lo sviluppo di ricerca. Il punto di vista dell'escursionista, così comune oggi, valutando i rischi non vuole arrendersi alle difficoltà, poiché ricerca nuove angolazioni, immagini, colori, profumi, suoni, per essere in sintonia con se stesso e il mondo. Dobbiamo ricordarci, inoltre, che non si è "turisti per caso"!  Grazie per l'attenzione.

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